La fosca prevedibilità della “cancel culture”

Far della critica, distruggere, non è difficile:

il più rozzo manovale sa conficcare i suoi ferri

nella pietra nobile e bella di una cattedrale.

—Costruire: questo è lavoro che richiede maestri.

S. Josemaría Escrivá

Cammino, punto 456

I livellatori che dominano il mondo contemporaneo sono essi stessi livellati. Circondandosi con cinica scaltrezza di cicisbei omologati e remissivi, finiscono per segare il ramo su cui stanno seduti. Sempre più balordi, sono incapaci di soluzioni creative. Sanno solo demolire – con bieca maniacalità – quello che altri hanno edificato con sapienza infaticabile, sovente difficile da eguagliare.

Alcuni più audaci tra loro tentano di generare chimere, si illudono di creare un mondo sottosopra, coltivano una passione malvagia per le piramidi rovesciate, ma in generale sono solo capaci di suscitare confusione e sterilità. Fossero almeno nani sulle spalle di giganti! Se mai vi si sono arrampicati, da tempo ne sono capitombolati giù in modo goffo e ridicolo. Quando l’uomo venne posto dal Creatore nel giardino dell’Eden per custodirlo e coltivarlo, gli fu affidata la grande responsabilità di accrescere l’armonia della creazione. Questa sì che è autentica audacia, creatività encomiabile! Questa sì che suscita la gelosia del drago, l’accusatore di sempre, impegnato a distruggere le cose belle e moltiplicare quelle brutte.

I colpi di coda del dragone

Il 10 aprile 2021 venne pubblicato un documentato articolo di Enrico Petrucci, Chiese distrutte tra Francia, Belgio, Inghilterra e Cile. Petrucci è autore, insieme ad Emanuele Mastrangelo, del saggio Iconoclastia. La pazzia contagiosa della Cancel Culture che sta distruggendo la nostra Storia, edizioni Eclettica, una grande inchiesta sull’ondata di iconoclastia che sta travolgendo la civiltà occidentale. Alle sue radici si trova la cancel culture nata negli ambienti colti dei radical chic e nei campus universitari USA. Così al grido delle parole d’ordine del «marxismo culturale» migliaia di monumenti finiscono nella polvere. L’infezione è arrivata anche in Europa, declinandosi in varie forme per ciascun Paese: dall’antifranchismo della venticinquesima ora in Spagna all’attacco contro le chiese in Francia. E in Italia iniziano le prime avvisaglie di una pazzia collettiva che rischia di distruggere nel nome del politicamente corretto l’intero patrimonio culturale. Un’emergenza alla quale è necessario far fronte subito, prima che sia troppo tardi.

Questo paragrafo e i due successivi sono tratti per esteso dall’articolo di Petrucci (evidenziato in corsivo), con alcune modifiche e integrazioni.

Il momento del crollo della guglia della chiesa de La Asunción

Nel giugno 2020 i lavori di riqualificazione di un collegio universitario a Lille, Alta Francia, raggiungevano oltralpe rilevanza nazionale: oggetto del contendere il fatto che la massiccia operazione urbanistica prevedesse la demolizione della cappella neogotica di Saint-Joseph, parte del collegio di Saint-Paul. La possibile distruzione della grande cappella, risalente al 1886, aveva attirato l’attenzione del Ministero della Cultura francese, che aveva chiesto un rinvio per meglio valutare la situazione.

La cappella Saint-Joseph è stata demolita nel gennaio del 2021. Ironia della sorte il campus dell’YNCREA di cui faceva parte la cappella e il relativo collegio, sono parte dell’Università Cattolica di Lille. Insomma, talvolta dietro le demolizioni di luoghi di culto cattolici ci sono le stesse istituzioni cattoliche, desiderose di fare cassa con “strutture” ormai sovradimensionate, inutilizzate, o semplicemente “non più al passo con i tempi”.

Il caso di Saint-Joseph a Lille e il tardivo, nonché inutile, interessamento del Ministro della Cultura d’oltralpe è l’ennesima dimostrazione di come nonostante la tematica delle demolizioni di chiese e cappelle ottocentesche inizi ad affacciarsi nel dibattito pubblico francese e non venga più considerata una falsità messa in giro da qualche nostalgico preconciliare, l’inversione di tendenza è ancora lontana. La prassi degli smantellamenti è ormai talmente radicata che più che un confronto di idee è urgente un approccio energico basato sulla metafisica dell’atto di essere. Altrimenti si continuerà a demolire, come dimostrano le notizie che arrivano dalla cronaca locale francese.

La prossima ad essere “rottamata” sarà la chiesetta di Saint-Germain-le-Scot a Carteret, nel golfo di Saint-Malo, in Normandia. Chiesetta consacrata nel 1912, quindi successiva alla legge del 1905 che sancì la separazione tra Stato francese e Chiesa Cattolica, perciò di proprietà della diocesi. La legge del 1905 prevedeva infatti la requisizione delle architetture sacre realizzate anteriormente. Marcel Proust dedicò un saggio a questa vile decisione laicista, La morte delle cattedrali. La condanna di Saint-Germain-le-Scot è dovuta a presunti problemi strutturali, la qualità del cemento realizzato con sabbia di mare. A malincuore la chiesa sarà demolita e il terreno su cui è costruita verrà venduto.

Quella di Carteret, si dirà, è in fondo una chiesetta del 1912. Un’opera novecentesca. Ma che a rischiare siano anche chiese più antiche è ormai assodato. Dal Belgio, nella regione francofona del Brabante vallone, arriva la notizia che verrà demolita una chiesa del 1792, quella dei Saints-Pierre-et-Martin. Nonostante la chiesa e la relativa collinetta su cui è edificata siano classificati come “monumento storico” dalla legislazione locale dal 1987. E nonostante al suo interno sia conservato il più antico organo della manifattura di Joseph Merklin. Non un nome qualunque tra i costruttori d’organi della seconda metà dell’Ottocento. Merklin ricevette la Legion d’Onore, in Francia molte delle sue realizzazioni sono classificate come di rilevanza storica e suo è anche l’organo a Trinità dei Monti a Roma.

Insomma per la chiesetta dei Saints-Pierre-et-Martin a Bierghes non vale certo la definizione di “chiesetta tardo-ottocentesca”. A prescindere dagli aspetti legati al culto, Saints-Pierre-et-Martin è una testimonianza rilevante per la località. Con la prassi ormai in uso da decenni in Francia i lavori di manutenzione e mantenimento della struttura a partire dal tetto sono stati tralasciati per anni e adesso il consiglio comunale non trova nulla di meglio che “rottamarla”. La beffa è che il Comune, completata la demolizione, sta persino pensando di erigere una struttura che “evochi” la silhouette della vecchia chiesa sul promontorio. Segno che i soldi per la manutenzione non ci sono mai, ma quelli per iniziative contemporanee non mancano mai.

Il caso di Bierghes è la dimostrazione di come la distruzione volontaria della memoria storica di queste piccole realtà di provincia si propaghi dalla Francia ai paesi confinanti. E sembra non essere l’unica tendenza francese in tema di distruzione di luoghi di culto a propagarsi all’estero. Anche gli incendi vandalici, e distruttivi, di chiese sembrano una tendenza in crescita fuori dalla Francia.

La genìa del dragone

Il 3 dicembre 2020 a Mackworth, nei pressi di Derby, località nel nord dell’Inghilterra tra Leicester e Nottingham, la chiesa locale è devastata dalle fiamme. La chiesa, intitolata a Tutti i Santi, risaliva al XIV – XV secolo con elementi vittoriani, come l’organo. Non si trattava di una “chiesa di campagna qualunque”, era classificata nel registro dei monumenti storici britannici come “grado 1”, lo stesso per intendersi di Buckingham Palace e del Castello di Windsor. Della chiesa sono rimasti il campanile e i muri perimetrali, con danni anche ai mattoni della muratura, crepati e sfaldati per la temperatura raggiunta. Le indagini hanno portato all’arresto di un diciassettenne per l’azione “vandalica”. La chiesa All Saints di Mackworth come la cattedrale dei Santi Pietro e Paolo a Nantes, gravemente danneggiata da un incendio nel luglio dello stesso anno? A leggere la cronaca locale inglese l’ipotesi che la “moda” francese dei gravi atti vandalici (incendi inclusi) contro le chiese stia arrivando oltremanica non è peregrina.

Poche settimane prima dell’incendio di Mackworth, nella località di Quarndon distante appena 5 chilometri, sempre un diciassettenne aveva appiccato un incendio nella chiesa di S. Paolo, la notte di giovedì 16 ottobre. L’incendio, appiccato su un muro della chiesa, fortunatamente ha causato danni limitati. Dalla cronaca locale i due fatti non sembrerebbero collegati.

Sempre scorrendo le “cronache locali” della provincia inglese non mancano segnalazioni di “atti vandalici” o “tentativi di furto” che vanno a colpire le vetrate decorate. A Leicester, capoluogo del Leicestershire (contea confinante a nord con il Derbyshire), a marzo 2020 aveva fatto scalpore la distruzione di una vetrata per un probabile tentativo di rapina nella cattedrale di San Martino, la principale chiesa della città, dove nel 2015 sono stati traslati i resti di Riccardo III d’Inghilterra. Più di recente nel Wiltshire, contea nel sud-ovest dell’Inghilterra, sono stati segnalati più atti vandalici nei confronti di tre chiese distinte. Le azioni, avvenute tra agosto e novembre, avevano avuto come obiettivo le vetrate decorate, con danni dell’ordine di migliaia di sterline.

Non esistono serie storiche accurate, ma la Countryside Alliance, no-profit britannica dedicata alle problematiche delle zone rurali del Regno Unito, ha promosso un’indagine tra le diverse polizie locali britanniche, raccogliendo tutti i dati relativi a “crimini contro chiese ed edifici religiosi”. Per il biennio 2019-2020 la cifra è di 5.831 casi, più della metà con finalità di furto, e ben 1.750 segnalazioni di atti vandalici. Una vera e propria guerra.

La zizzania istiga al rogo del grano

Insomma gli emuli di Erostrato, il piromane che nel 356 a. C. distrusse il tempio di Diana a Efeso, una delle sette meraviglie del mondo antico, sembrano moltiplicarsi in questo periodo. Ma oltre alle azioni distruttive dei piromani dalla Francia all’Inghilterra spaventa un’altra tendenza che arriva dal Cile. Quella degli incendi di chiese a fini di protesta che ha raggiunto il culmine nell’ottobre 2020, con la distruzione di due chiese di Santiago del Cile, La Asunción e S. Francisco de Borja.

I

Soprattutto le immagini della prima chiesa, quella de La Asunción, con la guglia che precipita tra le fiamme, hanno fatto il giro del mondo, ma con nessun interesse ad approfondire. Le manifestazioni dell’ottobre 2020 a Santiago del Cile, segnavano il primo anniversario del primo anno di proteste contro carovita e diseguaglianze in Cile. E già nell’ottobre 2019 la chiesa parrocchiale de La Asunción, inaugurata nel 1876, era stata oggetto di un ampio saccheggio con la motivazione di reperire materiale per una barricata che i manifestanti stavano realizzando in un viale vicino. Ma oltre a panche e confessionali finirono sulle barricate anche statue, dipinti e arredi sacri. L’anno successivo, oltre al saccheggio, l’incendio, con tanto di immagini sui social che mostravano manifestanti trionfanti mentre ammiravano la distruzione in corso. Allo stesso tempo dai giornali locali risulta che i manifestanti abbiano ritardato e impedito l’intervento dei vigili del fuoco.

A essere colpita anche la vicina chiesa San Francisco de Borja, eretta nel 1876 come cappella dell’omonimo ospedale che fu demolito nel 1967. Anche lì l’incendio ha distrutto il tetto, ma la guglia è rimasta in piedi. La cappella si salvò dalla demolizione dell’ospedale sia per l’opposizione dei fedeli e del personale del vecchio ospedale, sia per il suo valore artistico e architettonico riconosciuto da parte dell’Università del Cile: è possibile che al progetto abbia partecipato un architetto inglese, o, meno probabile, architetti francesi. Pure francese la vetrata del rosone distrutta negli incidenti, la più antica del genere in Cile. Dopo la demolizione dell’ospedale la cappella era passata negli anni della dittatura al corpo dei Carabineros cileni, diventando la loro cappella, tant’è che nel 1989, nell’ultima fase del governo della giunta militare davanti alla chiesa fu eretto il monumento ai carabinieri caduti in servizio.

Dal punto di vista dei manifestanti le due chiese hanno una connotazione politica prima che artistica o religiosa. San Francisco de Borja come cappella dei Carabineros che, come corpo militare, fecero parte del golpe contro la giunta di Allende. Più sinistra la vicenda de La Asunción, la cui sagrestia divenne durante la dittatura un archivio e centro di detenzione e tortura. Al di là della vicenda di queste due singole chiese. occorre precisare che a livello istituzionale la Chiesa Cattolica cilena, pur appoggiando il golpe di Pinochet in chiave anti-marxista rimase sostanzialmente neutrale, e fondò anche l’associazione per i diritti umani La Vicaría de la Solidaridad, che diede un contributo determinante al lungo percorso di pacificazione e ritorno alla democrazia. Pur essendo associata al fenomeno della giunta militare di Pinochet dal punto di vista politico, in quello sociale si pose quindi su di un piano differenziato rispetto alla dittatura. Una situazione ben diversa da contesti superficialmente simili come la Spagna franchista.

Nella distruzione de La Asunción e San Francisco de Borja occorre tenere conto anche di un altro aspetto. Al di là dell’eventuale retaggio collegato alla giunta militare per le due chiese in oggetto, bisogna inquadrare il contesto degli incendi alle chiese cilene in un quadro più ampio. La pratica di bruciare le chiese come forma di protesta era arrivata al pubblico internazionale nel corso della visita apostolica in Cile di Papa Francesco del gennaio 2018. Visita apostolica con molte proteste, sia per le spese considerate eccessive, sia per un caso di pedofilia coperto dai vescovi locali. Prima e durante la visita furono date alle fiamme una dozzina di chiese, riprendendo a livello nazionale una pratica nata originariamente a livello locale dalle rivendicazioni delle frange estremiste della popolazione Mapuche. Pure il fenomeno del 2018 sembrava limitato alle zone periferiche del Cile e legato anche a rivendicazioni territoriali. Inoltre coinvolgeva edifici religiosi privi di qualche valore artistico o storico. La distruzione di La Asunción e San Francisco de Borja a Santiago del 2020 fa registrare invece l’ennesima escalation. Tanto che un mese dopo viene incendiato nel nord del Cile il portone d’ingresso della cattedrale di Antofagasta. Incendio che fortunatamente causa danni limitati. Ma come insegna il caso di Nantes del luglio 2020, le chiese sono strutture fragili, e basta poco per passare da un danno superficiale a distruzioni totali.

La demolizione di un numero così elevato di chiese antiche è un crimine da incoscienti, non tanto perché gli autori non si rendano conto del danno arrecato deliberatamente al patrimonio artistico, quanto perché è di gran lunga più facile abbattere che costruire, qualunque tipo di edificio si voglia erigere dopo, anche di uso civile. Le nuove tecnologie edilizie si sono diffuse per la loro economicità. Non richiedono la perizia di un capomastro sottoposto ad un prolungato tirocinio. Non ci sono più, per esempio, scalpellini e intagliatori capaci di lavorare i conci di pietra (per le scale, per gli archi, per le volte) secondo le regole della stereotomia. Per non parlare delle travi di legno che compongono le capriate. Oltretutto oggi il legno non viene più stagionato con i tempi e la pazienza di una volta. Tutto questo materiale gettato in discarica incrementa il vuoto di conoscenze architettoniche della nostra epoca, indispensabili quanto meno per i restauri. E forse, in futuro, per guarire dalla follia del progresso a tutti i costi.

Un dragone camuffato?

Il 25 luglio 2023 è stata una giornata tragica per Palermo. Approfittando del caldo torrido, che ha superato i 40°, qualcuno deve avere deciso di innescare simultaneamente il fuoco alla vegetazione di tutte le cime che abbracciano la Conca d’Oro. Ci auguriamo che vengano arresati i colpevoli e vengano chiarite le ragioni del gesto delinquenziale.

La chiesa quattrocentesca di S. Maria di Gesù è stata quasi del tutto distrutta da un incendio appiccato alle falde di Monte Grifone. Il fuoco è sceso dalla fascia boschiva pedemontana molto velocemente, sospinto dal vento di scirocco, fino ad arrivare ad alcuni cipressi in corrispondenza del muro perimetrale del convento di S. Maria di Gesù. Da qui le faville sono arrivate ai canali in terracotta soprastanti il tetto ligneo della chiesa, probabilmente pieni di frasche o vegetazione secca, tanto da determinare l’incendio e il crollo del soffitto sulle panche di legno sottostanti, che hanno propagato il fuoco nelle cappelle laterali.

Pare che l’indecisione nelle fasi cruciali dell’emergenza sia stata fatale, perché i residenti erano riusciti in breve tempo ad arrivare con autobotti private ma non è stato loro permesso dalle forze di polizia intervenute di fronteggiare l’incendio che ancora era a ridosso della chiesa.

Sono andati perduti il soffitto dipinto, il coro ligneo, l’organo a canne, la statua lignea quattrocentesca di Santa Maria di Gesù, una statua ottocentesca in legno della Vergine Assunta ed il relativo abito ricamato, dono dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria. Gravemente aggrediti dalle fiamme anche i manufatti marmorei e i corpi di san Benedetto il Moro e del beato Matteo da Girgenti, a quanto pare irrecuperabili.

Quel che resta delle spoglie di S. Benedetto il Moro

Il cipresso di S. Benedetto il Moro, uno dei più longevi d’Italia, è stato esposto all’incendio e presenta la chioma di una tonalità differente quasi rinsecchita. Speriamo davvero che superi questa fase di intenso stress termico. La cappelletta sottostante il cipresso, dove il Santo si ritirava in preghiera e meta attuale di pellegrinaggi, risulta in discrete condizioni e recuperabile. Le immagini dei luoghi per il resto parlano da sé, provocando un dolore acutissimo.

La chiesa prima dell’incendio




La chiesa di S. Maria di Gesù dopo l’incendio

Descriviamo di seguito il complesso conventuale così com’era prima dell’incendio di luglio, come se non fosse successo nulla. Illusione dalla quale prima o poi dovremo svegliarci.

Siamo alle falde di Monte Grifone. La borgata che prende il nome dal convento è collocata su uno dei belvedere della Conca d’Oro, costituito da vialetti alberati in posizione sopraelevata rispetto alla città di Palermo. Si trova tra le borgate di Ciaculli e di Belmonte Chiavelli. S. Maria di Gesù oggi, dopo la costruzione dell’autostrada per Catania negli anni Settanta-Ottanta del secolo scorso, si trova all’ingresso della circonvallazione di Palermo. A S. Maria di Gesù ci sono ancora agrumeti, dove si coltivano mandarini, limoni e altre varietà di alberi da frutto, tipiche della Conca d’Oro. Nella piazza centrale della borgata, dalla quale si diparte la scalinata che conduce alla chiesa, si trova un cippo marmoreo con la Croce del Calvario. Secondo la tradizione qui si fermò l’asinello che, lasciato libero, avrebbe dovuto indicare per ispirazione divina il luogo in cui costruire il convento.




Quel che resta delle spoglie di S. Benedetto il Moro

Il primo nucleo del complesso risale al 1426 e fu voluto da un frate francescano di Agrigento, il beato Matteo Gallo (sarà vescovo di Agrigento nel 1442), che chiamato a predicare a Palermo fu invitato a fondare un convento. Lo chiamò “S. Maria di Gesù”, come tutti i conventi degli Osservanti Riformati da lui fondati in Sicilia, in questo caso con licenza di papa Martino V. Il luogo fu scelto fuori dalla città per consentire ai frati di dedicarsi, nel silenzio e nella pace, alla preghiera e ad una vita di grandi rinunce. Due coniugi devoti, Antonio e Betta Mirabile regalarono il terreno per consentire la costruzione originaria: sulla porta della chiesa era riportato il ricordo di questa donazione. Secondo alcuni storici, tuttavia, esisteva già una cappella di S. Antonio da Padova eretta intorno al 1232 (all’epoca della canonizzazione) in onore della presunta permanenza del Santo nella “masseria degli Schiavi”, nel 1226, durante il viaggio verso l’Italia.

Agli inizi il complesso comprendeva solo una piccola chiesetta, alcune celle per i frati, intorno ad un chiostro a forma quadrata con una graziosa fontana al centro. Nelle quattro aiuole del chiostro si trovano oggi solo quattro alberi caratteristici: un fico, simbolo della dolcezza; un melograno, simbolo della bellezza; un ulivo, simbolo della pace; una palma simbolo della vittoria. La fontana è decorata da mattonelle in maiolica policroma con motivi floreali. Nella nicchia centrale è l’episodio del Trafugamento delle spoglie del beato Matteo Gallo sul ponte dell’Ammiraglio. Si fa riferimento alla curiosa leggenda risalente al 1448, anno della morte del fondatore, secondo la quale i frati del convento di S. Maria di Gesù, dopo avere ricevuto il diniego da parte dei confratelli francescani per la cessione delle spoglie, stabilirono di trafugarle nottetempo per traslarle nel loro convento. L’inseguimento dei francescani finì appunto sul ponte dell’Ammiraglio quando un violento nubifragio fermò il passo soltanto ai francescani inseguitori, che – resisi conto del portentoso miracolo – abbandonarono l’intento di recuperare il maltolto. Nel luogo di questo prodigio fu innalzata una croce di marmo tutt’ora visibile.

Per l’esemplarità e la devozione dei fraticelli, il luogo venne preso a cuore dai palermitani, i quali consideravano S. Maria di Gesù un’oasi di santità. Poi la comunità crebbe notevolmente e nel 1578 fu necessario costruire un secondo piano con celle e altri locali comuni per ospitare frati, novizi e postulanti che desideravano far parte dell’ordine. Proprio in quel periodo visse nel convento Benedetto da Sanfratello, il fraticello nero di origini etiopi, che godeva universalmente di fama di sant’uomo prima ancora di essere proclamato santo. È patrono e protettore di Palermo insieme ad altri santi e sante.

Nel cantiere del cenobio è presente di sicuro il lombardo Cristoforo da Como, che lavora negli stessi anni anche al convento di S. Francesco d’Assisi. A lui si deve il chiostro a pianta quadrata con arcate a sesto ribassato su tozze colonne. L’esecuzione incompiuta dell’insieme e dei capitelli, lasciati allo stato di abbozzo, è probabilmente dovuta alla morte dell’artista (1492). Nelle corsie si conservano due ottimi monumenti funerari seicenteschi. Dopo i danni del terremoto del 1968, il convento venne restaurato e rinnovato per gran parte.

In principio venne realizzata una chiesa molto piccola, di appena 6 canne per 4. Considerando che la canna equivaleva a poco più di 2,10 metri, si capisce quanto fosse minuscola. Ben presto venne ampliata con l’annessione di due cappelle sepolcrali: sul davanti quella di Gaspare Bonet, per cui l’ingresso della cappella divenne il portale della chiesa; nella parte posteriore fu inglobata la cappella La Grua Talamanca, che consentì la costruzione del coro dietro l’altare maggiore. Alla fine del XV secolo questa cappella venne ricostruita accanto alla chiesa. La nuova costruzione funeraria è un esempio di gotico ispanizzante, con un bel portale, con archi e colonnine che ne modulano il chiaroscuro e lunetta traforata. Nell’archivolto esterno del portale sono le armi dei La Grua Talamanca. L’interno della cappella, con volte costolonate su pilastrini, era decorato da affreschi con Storie di S. Bernardino, attribuiti al Maestro del Trionfo della Morte, in gran parte perduti ma copiati nel 1868 da Giuseppe Pensabene.

Si accede alla chiesa, ad unica navata centrale, da tre ingressi. Il portale principale è quello rinascimentale in marmo bianco, attribuito ad Andrea Mancino: sull’architrave è scolpita l’immagine di Dio Padre benedicente circondato da cherubini e angeli in adorazione. Gli stipiti sono suddivisi in riquadri con i busti dei dodici apostoli che recano cartigli con i dodici articoli del Credo.

Il secondo ingresso è del XV secolo: un portale gotico a doppio arco ogivale, al di sopra del quale è un’edicola con un bassorilievo della Vergine col Bambino e due figure femminili. L’altro ingresso, che dava accesso alla cappella La Grua Talamanca, è un portale gotico catalano con tre cornici e gli stemmi di famiglia. Una famiglia tristemente nota in Sicilia per via dell’atroce omicidio che subì Laura Lanza, sposata La Grua Talamanca, meglio nota come la baronessa di Carini.

L’interno è ad unica navata con presbiterio quadrato introdotto da un arco ogivale e coperto da volte costolonate. La chiesa è stata snaturata da un restauro che ha smantellato il pavimento ricco di lapidi, gli altari e i numerosi monumenti funebri. All’ingresso sono visibili il monumento funebre di Tommaso Chacon di Leonardo Pennino (1789) e, nel sottocoro, il Monumento funebre di Giuseppina Zalapì di Benedetto De Lisi (1865). Nella parete destra, incassata fra due finestre strombate, è la parte superiore di un altare barocco a marmi mischi, risalente forse alla ristrutturazione della chiesa alla fine del XVII secolo, purtroppo privato della sottostante mensa. L’altare ha nella nicchia una Madonna col Bambino tardo quattrocentesca, riferita a ignoto scultore altoatesino.

Superato il sottocoro, a destra e a sinistra si trovano la cappella di San Benedetto il Moro e la cappella del beato Matteo. Una teca in vetro contiene le spoglie di San Benedetto. Il volto del santo venne riprodotto in cera mentre il corpo del santo fu mummificato. Tradizionale è il pellegrinaggio della seconda domenica di Pasqua, domenica in albis, per ricordare il transito di San Benedetto, avvenuto il 4 aprile 1589, martedì di Pasqua, all’età di 63 anni, dopo trenta giorni di sofferenze per una gravissima malattia.

Una cappella laterale, con l’altare di S. Maria di Gesù, ospita la statua lignea della Madonna col Bambino, che si racconta sia giunta miracolosamente intorno al 1470 portata dalle acque del mare. Inizialmente era collocata sull’altare maggiore. In seguito l’altare con la balaustra in marmo fu smembrato e oggi la Madonnina è posta in una cappelletta laterale ornata con marmi mischi.

Secondo quanto riferito in antichità, tutti i sabati dell’anno e nelle feste della Madonna, tantissimi fedeli vi accorrevano in pellegrinaggio e alcuni facevano il viaggio a piedi scalzi, anche d’inverno. Ogni anno si celebrava con grande devozione la festa solenne il 2 di luglio, ma anche questa è andata scemando nel corso dei secoli.

Il presbiterio coperto da una volta a crociera risale al primo impianto della chiesa così come l’abside, in cui – inquadrati da una cornice a stucco ottocentesca – sono i resti di un affresco con la Madonna del Magnificat con i SS. Francesco, Pietro, Paolo e Gabriele, di ignoto della prima metà del XV secolo. Il sarcofago di Antonio Alliata, con due rilievi di santi di scuola gaginesca, è opera di Antonello Gagini (1524).

A destra e a sinistra della navata si aprono rispettivamente la cappelletta della Madonna, dove è documentata la primitiva sepoltura del Beato Matteo da Girgenti; e la cappelletta dell’Ecce Homo, dove è custodita l’antica immagine di Gesù sofferente, un tempo collocata sull’altare maggiore, che tanta devozione aveva suscitato nel popolo palermitano.

Nel 1634 il duca di Alcalà, viceré di Sicilia, fece ottenere al convento la concessione di approvigionamento dalla sorgente d’Ambleri. Per l’occasione fece erigere sul sagrato della chiesa una fontana in marmo, la cui conca è decorata con le armi e gli stemmi della casata, tabelle commemorative, putti che gettavano acqua nella conca minore e maioliche con motivi floreali. Altri elementi, come i quattro leoni reggistemma e la piccola conca all’apice con la torretta lapidea, sono stati trafugati. Oggi la fontana è asciutta. Negli stessi anni si creò una grande peschiera nel giardino, oggi assai malridotta, abbellita da un’esedra con otto nicchie con statue di terracotta di spiccato gusto vernacolare, raffiguranti Scene della vita di Santi.

Un tempo i morti di un certo rango venivano sepolti nelle chiese. Lo stesso vale per S. Maria di Gesù, che ospitò nella cripta della chiesa e nella chiesa stessa i frati e anche i nobili, così come è testimoniato dalle numerose lapidi presenti. Ma ben presto intorno alla chiesa vennero erette cappelle nobiliari come quelle dei La Grua Talamanca, dei Lucchesi Palli di Campofranco, dei Pignatelli Aragona Cortes.

A partire dal 1866 (dopo le leggi eversive) tutt’intorno alla chiesa fu sistemato il cimitero di S. Maria di Gesù, con un sistema a terrazze che vanta testimonianze notevoli di architettura e scultura funebre. Fra questi la monumentale cappella Florio (dove riposano Vincenzo Florio, Vincenzo Jr, Ignazio Florio jr e la moglie Franca Florio, nata Francesca Jacona della Motta di San Giuliano), dovuta a Giuseppe Damiani Almeyda (intorno al 1870), con il leo bibens simbolo della famiglia, scultura in marmo di Benedetto De Lisi jr e con decorazioni pittoriche di Giuseppe Pensabene; la cappella Lanza di Scalea (1900), la cappella Nicosia (1898), la cappella di Giorgio Pensabene (1912), opere di Ernesto Basile; la cappella Ingrassia con bassorilievo di Francesco Garufi; le cappelle Bordonaro (1890), Mercadante (1885), Albanese e la sepoltura Palazzotto, di Francesco Paolo Palazzotto; la cappella Mannino di Emanuele Palazzotto. Nel camposanto si trova pure la sepoltura di Antonino Salinas.

Oggi il cimitero, che è il quarto fra quelli monumentali di Palermo, si è ingrandito e altre cappelle ricordano personaggi di spicco della nostra città. Da ricordare che anche la famiglia Borsellino ha in questo cimitero la sua cappella, dove giacciono Paolo e la sorella Rita. Riposano qui le salme di frati minori siciliani di molti dei quali ancora si conserva memoria.

Una curiosità è il cipresso vecchio di 500 anni, che si staglia nelle pertinenze del convento, lungo un tragitto chiamato Paradiso serafico, un viale alberato adornato con edicole della Vergine e di santi francescani, un luogo dove i frati solevano ritirarsi per un momento di solitudine. Stando a quanto si narra, quell’albero secolare dai rami insolitamente contorti crebbe dal bastone che S. Benedetto conficcò in quel luogo di preghiera.

La danza giuliva degli ignari

I guastatori, benché monotoni e ripetitivi nelle loro smanie di sfasciare, hanno buon gioco con l’opinione pubblica perché hanno preventivamente intossicato le radici dell’educazione. L’operazione va avanti da parecchio. Di recente hanno accelerato i tempi degli esperimenti di ingegneria sociale, per verificare a quanti gradi di libertà siano disposti a rinunciare gli esseri umani e in nome di che cosa. Lo hanno fatto con l’abbattimento delle Torri Gemelle (al prezzo di quante vite umane?), hanno moltiplicato gli sforzi con la cosiddetta pandemia (quante schiere di morti e di malati cronici sono state causate scelleratamente?), continuano ad alimentare paure e incertezze con le guerre in aree strategiche (anche qui, stragi di civili che si sarebbero dovute evitare).

Oggigiorno si registra un intontimento generalizzato. Lo stordimento può essere di varia natura. C’è quello congenito, determinato da una proporzione inadeguata fra cervello (organo biologico principale del sistema nervoso centrale) e intelletto (facoltà dell’anima, spirituale, che presiede all’elaborazione di concetti e giudizi sulla realtà). C’è l’obnubilamento determinato da patologie più o meno gravi, che abbassano la soglia di coscienza della persona umana. C’è l’accecamento provocato dall’ambiente o da un sovraccarico cognitivo superiore alle capacità di valutazione critica del singolo, che alle volte è troppo fragile emotivamente e dipende morbosamente dal consenso del gruppo. Ci sono le persone profondamente buone, che insistono ad oltranza a vedere il bene dove bene non c’è, illudendosi che tutti siano buoni come loro. C’è infine – e soprattutto – la stupidità della superbia, che acceca la mente e causa una chiusura della conoscenza rispetto alla realtà, per rabbia. Quest’ultimo in fondo è un vantaggio per le persone umili, di buon senso, sanamente creative, che potrebbero avere l’ultima parola in momenti di grave crisi come quello attuale. Un discorso a parte merita la maturazione della sapienza che proviene dalla collaborazione con la grazia.

Uno degli strumenti dei demolitori è il degrado pianificato della qualità dell’istruzione. Messa da parte l’educazione (l’arte di sviluppare le virtù intellettuali facendo leva sulle virtù morali), hanno gradualmente trasformato scuola e università in luoghi di trasmissione di nozioni che anestetizzano il coraggio della ribellione in bambini, ragazzi e giovani. Per moltiplicare i mediocri occorre mettere mediocri nei posti chiave dell’insegnamento. Poi c’è l’indottrinamento attraverso i mezzi di comunicazione. Si potrebbe fare un’infinità di esempi concreti. Prendiamo quello di un famoso divulgatore “scientifico”, attivo per più di cinquant’anni. Prima delle dodici lauree honoris causa, poteva vantare un liceo fatto male e nessuna laurea presa davvero. Fra l’altro a scuola collezionò molti 5 (ad es., in matematica, fisica e scienze). Con un po’ di accortezza ci si può rendere conto che le sue trasmissioni e le sue pubblicazioni, confezionate con dovizia di risorse e poste sotto riflettori abbaglianti, presentano i fatti in modo distorto o lacunoso. È chiaro? Abbiamo compreso che televisione e giornali possono creare dal nulla dei veri e propri miti, in ogni campo?

I registi della confusione attuale osservano compiaciuti l’allegra incoscienza con cui molti sono concentrati a ballare mentre il transatlantico affonda. In realtà non sono né tanto allegri né tanto incoscienti, perché sono sempre più poveri dal punto di vista economico e sempre meno spensierati dal punto di vista delle sicurezze interiori.

Che fare dunque? Quando inizia il diluvio, fanno soffrire coloro che festeggiano la fine della calura, pieni di sé o fatti ubriacare. Causa dolore dedicarsi a far salire sull’arca soltanto coloro che sono chiamati alla salvezza.

Qualcuno ha suggerito di moltiplicare le oasi libere, la prima delle quali è la libertà di spirito. Tutto sommato, chi si muove in tal senso va scoprendo con speranza rinnovata che non sono poi così tante le persone in preda alle allucinazioni indotte da invisibili campi di rieducazione. Quelle disposte a dire che due più due fa cinque forse sono addirittura una minoranza. Ci sono state epoche in cui era necessario combattere a costo della propria vita la tirannide, il dispotismo, l’assolutismo. A noi tocca liberarci dalla stupidità, con l’aiuto della quale i signori del mondo vogliono renderci schiavi sempre più arrendevoli in un pianeta di esseri umani inconsapevoli, come ne Il paese dei ciechi di H. G. Wells. Un paese dei ciechi sterminato, non più circoscritto come nel romanzo ad un piccolo villaggio andino dell’Ecuador.

Ciro Lomonte

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